la-vita-ha-due-facce2

Negli ultimi tempi l’unica presenza femminile che risiedeva nel mio appartamento si chiamava Monotonia. Ma per quanto le cose possano ripetersi all’infinito e tediarti fino a ridurti in stato vegetativo, c’è sempre un elemento inaspettato che attende dietro l’angolo e a sbucare fuori all’improvviso, come l’ultimo rimasto a nascondino che corre a fare tana; e non avrei mai immaginato che un giorno di quelli avrei fatto un incontro che avrebbe cambiato per sempre la mia nuvolosa esistenza. In peggio.

Da un paio di anni ormai vivevo da solo, dopo che mia moglie era andata via  di casa. Non con il mio migliore amico, perché non ho amici, ma con il suo datore di lavoro. Come vedete, prima di essere monotona la mia vita era totalmente priva di originalità. Cominciai a insospettirmi quando le cene di lavoro cominciarono ad essere più numerose dei giorni lavorativi. E così tra l’umiliazione, la delusione, la certezza di un futuro che svanisce come la fiamma di una candela su una torta di compleanno, mi ritrovai da solo, ad auto commiserarmi. Inizialmente mi sentivo sempre in ansia e sul chi va là, come un serpente in una stanza piena di gente che salta. Poi tutti i miei sentimenti sfociarono in un profondo odio verso tutto ciò che mi circondava: Lavoro, vicini di casa, conoscenti e parenti. Cominciai a rendermi conto che non avendo amici e conducendo un lavoro d’ufficio in cui non era previsto interagire con alcun essere umano, non parlavo più con nessuno e quindi usavo molto poco la mia voce. E quelle poche volte che mi capitava, non essendo abituato a parlare, avevo difficoltà a modulare il tono. Le parole mi uscivano come se nella mia gola ci fosse una garza a trattenerle, quindi dovevo schiarirmi fastidiosamente la gola e ripetere sempre due volte quel poco che mi capitava di dire. Così escogitai una tattica: iniziai a parlare da solo. Quando stavo in casa pronunciavo a voce alte quasi tutti i miei pensieri, e in gran parte si trattava di lamentele. Guardavo la tv e commentavo le azioni dei protagonisti delle serie tv o delle partite di calcio. Facevo i mestieri e mi lamentavo di quanto fosse umiliante svolgere quelle mansioni che non avrebbe dovuto svolgere mia moglie. I momenti più fervidi si manifestavano durante la colazione. Preparavo il caffè e bestemmiavo contro qualcosa. Ero seduto al tavolo in cucina a trangugiare caffè e biscotti e lanciavo le mie maledizioni contro qualcuno. Contro il capo che non considera le mie idee, contro i vicini che invitano amici il sabato sera, contro il bambino del piano di sopra che trascinava i suoi giocattoli sul pavimento rendendomi involontario partecipe delle sue ore di gioco. Insomma ce l’avevo con tutti; non riuscivo più a trovare qualcosa che mi interessasse o distraesse. Mia madre me lo ripeteva spesso: “Ragazzo mio, se vai avanti così non farai altro che allontanare tutto quel poco che ti rimane. Ti allontanerai da tutti e nessuno si ricorderà più di te. E tu finirai col scomparire. Letteralmente”.
Io da bravo figlio scuotevo la testa con la promessa che avrei fatto qualcosa ma quando tornavo a casa bestemmiavo anche contro di lei.

Una mattina che non dimenticherò facilmente, mi alzai dal letto grazie a una sveglia minacciosa, mi trascinai verso il bagno e mi detti uno sguardo allo specchio. Occhi spenti come una camera oscura e i lati della bocca tendevano verso il basso così tanto che avrebbero potuto solleticarmi la pancia.
Andai in cucina, presi la moka e la riempii di caffè quando a un certo punto sentii provenire una voce rancorosa e indispettita alle mie spalle. Mi voltai di scatto e per poco non fui colto da un infarto. Seduto al tavolo alle mie spalle c’era un tizio, i suoi occhi fissavano un punto del tavolo e l’espressione sul suo volto era piena di disprezzo e disillusione. Colsi solo alcune parole del suo discorso, tra le quali “Schifo”, “Persone”, “Rispetto”, e “Maleducazione”. Non riuscivo a concentrarmi troppo su quello che stava dicendo perché la mia attenzione era rivolta a un particolare non indifferente: l’uomo seduto a quel tavolo ero io.
Lui sembrava non accorgersi di me, continuava a parlare e manifestare il suo odio verso dei non precisati soggetti con un linguaggio che lasciava molto spazio alla creatività, specialmente quando si trattava di  accostare figure religiose a determinate specie di animali.
Cercai di avvicinarmi per capire cosa stesse succedendo, o perlomeno capire se riuscisse a vedermi. Ma nel momento in cui mi avvicinai il suo trasporto emotivo si fece sempre più laborioso e dovetti fare un passo all’indietro quando con un pugno colpì con prepotenza il tavolo.
Con le spalle al muro, cercai di uscire di sottecchi dalla cucina, dirigendomi verso la camera da letto in cerca di conforto. Aprii la porta e subito la richiusi, come se volessi chiudere tutto il mondo fuori.
Ma appena mi girai lo ritrovai lì, sdraiato sul letto a contemplare il soffitto, con le braccia tese verso l’alto come se stesse maledicendo l’universo intero. Il buon senso mi reprime dal riferire quanto udito in quella camera. Ancora una volta cambiai stanza, per cercare di fuggire da quella visione. Dovevo capire se ero diventato pazzo o ero in preda a un incubo. Stavolta i pizzicotti non bastavano, forse avrei dovuto sbattere violentemente la testa da qualche parte e confidare nel prossimo risveglio.
Provai a rifugiarmi in bagno ma appena aprii la porta trovai di nuovo l’altro io, seduto sul water, curvo con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Di nuovo stava blaterando qualcosa con una voce stavolta tendente al piagnucoloso. Questa volta sembrava avercela con l’appartamento, si guardava intorno e imprecava contro le pareti. A un certo punto, per la prima volta il suo sguardo si fermò sul mio. Per un attimo pensai che si fosse accorto di me e mi stesse per dire qualcosa. Poi la sua bocca lentamente si alzò come volesse sorridere, e strinse gli occhi fino a farli sparire in un abbraccio di rughe. E mentre il volto si colorava di un rosso vivace, dalla sua bocca fuoriuscì un suono gutturale dopodiché da un altro punto del corpo sentii un rumore acuto che mi ricordò il suono della sirena di una nave. Gli eventi stavano prendendo una piega decisamente surreale. Di nuovo mi chiusi la porta alle spalle, questa volta non sapevo proprio dove andare. Mi guardai intorno come a voler cercare una via di fuga. Se si fosse aperta una voragine sul pavimento e mi avesse risucchiato non mi sarei stupito minimamente, anzi, avrei accolto l’evento con un sorriso. Mi diressi lentamente verso la sala, cercando di godermi quei momenti di silenzio. Per un attimo pensai di uscire di casa ma qualcosa mi trattenne dal farlo. Una parte di me voleva uscire, ma un’altra parte (quella più grossa) preferiva non abbandonare le mura di casa. Mi avvicinai timidamente all’ingresso del salotto, la tv era accesa. Non l’avevo accesa io. Mi affacciai e lo vidi (anzi, mi vidi) seduto sul divano a commentare un dibattito politico di bassa lega. Sconfortato mi guardai intorno in cerca di un oggetto che mi potesse suggerire cosa fare, quando lui mi prese alla sprovvista. Si alzò dal divano, indossò la mia giacca e andò verso la porta di casa per poi uscire.
Andai alla finestra che dava sul vialetto sottostante e lo vidi mentre chiacchierava amabilmente con l’inquilina del piano di sopra. La signora aveva un’espressione spiazzata ma sembrava si stesse trattenendo volentieri a chiacchierare. Lui parlava, gesticolava e soprattutto… rideva. Non ricordavo un’immagine di me mentre sorridevo negli ultimi due anni. Non così spontaneamente. Poi si salutarono e lui sparì dalla mia visuale. Vidi l’espressione della signora che inizialmente sembrava stupita come se avesse appena visto un cane fumare un sigaro, ma poi riprese il suo cammino sorridendo.
Io rimasi in casa tutto il giorno, seduto sul divano. Mi sentivo totalmente privo di forze, come se avessi dieci sacchi di sabbia addosso. Non riuscivo nemmeno a muovermi. Verso sera lo vidi (anzi, mi vidi) tornare a casa. Questa volta non stava imprecando contro nessuno, stava canticchiando. Sentii vibrare il cellulare, era un messaggio. Era Giulia, una mia collega che ho sempre trovato attraente ma verso la quale non sono mai riuscito a stabilire un approccio. Il messaggio era: “Oggi mi sono davvero divertita in pausa pranzo. Non me lo sarei mai aspettata da te. Era ora che reagissi. Mi hai davvero stupita, non lo credevo possibile. Sarebbe carino stare ancora un po’ insieme, magari a casa tua…”.
Quasi mi veniva da ridere, ma ero talmente debole che anche il più insignificante muscolo del mio corpo mi sembrava portasse addosso dei pesi enormi.
I giorni mi passavano addosso, come un paesaggio dal finestrino di un treno, ed io ero sempre lì a guardare l’altro me portare avanti la sua vita. Una sera anziché sentire il consueto sferragliare delle chiavi nella serratura, sentii un rumore più irregolare e violento. La porta si aprii prepotentemente e lo vidi entrare avvinghiato a una donna. I due si scambiavano baci passionali e bramosi. Si strapparono i vestiti da dosso come se fossero avvolti dalle fiamme e si precipitarono verso la camera da letto.
Andarono avanti per qualche ora tra urla e gemiti finché finalmente non fu di nuovo silenzio. Tra me e me pensavo “Complimenti, sono migliorato”. Dopo qualche minuto affiorarono delle deliziose risatine.
Dimenticavo… lei era Giulia, la mia collega.

Sono passate quattro settimane e io dal divano mi sono spostato in anticamera, rannicchiato in un angolo. La casa ha cambiato colore, la sera c’è sempre un via vai di gente e l’aria è vivace.
Nessuno sembra accorgersi di me mentre sono adagiato qui in questo angolo a vedere una splendida metamorfosi compiersi di giorno in giorno.
A un certo punto sento come un ronzio, come se tutti i rumori in sottofondo si stessero uniformando e raccogliendosi in un unico suono. Mi gira la testa, le immagini perdono nitidezza.
Con fatica raggiungo il bagno; mi appoggio al lavandino e mi guardo allo specchio.
Vedo delle macchie comparire sul mio volto. Le guardo attentamente mentre tutto intorno sembra girare. Non sono macchie. Alzo una mano, la guardo e vedo le mie dita sparire lentamente. Sembra di vedere la riva di una spiaggia, quando le onde coprono la sabbia.
Lo stesso si verifica sul mio volto, vedo le chiazze ingrandirsi sempre di più e allargarsi come un pezzo di carta che prende fuoco. Provo a gridare ma non ho più voce. Sollevo le mani per guardarle ma non le trovo più.
E poi non vedo e non sento più niente.

Nota: Ho fatto leggere questo racconto a diverse persone, e ognuno l’ha interpretato a modo suo. L’idea che avevo in mente io era di raccontare quando la voglia di reagire ha la meglio sulla solitudine e depressione. Il tema del racconto che mi era stato dato era appunto “L’incontro”, e io ho immaginato come sarebbe assurdo una mattina, mentre ci stiamo preparando la colazione, incontrare noi stessi in cucina, o perlomeno, un lato di noi. E da lì è nato questo racconto surreale.