pink floyd

Quarto giorno, quarto disco.

L’album di oggi lo considero un’opera monumentale, un condensato di arte che sembra provenire da un’altra dimensione. È Echoes, il primo best of dei Pink Floyd pubblicato nel 2001.

Non era facile riassumere in due dischi l’epopea trentennale dei Pink Floyd, per via delle differenze abissali che corrono dalla psichedelica degli esordi alla rock opera di The wall.
Ma tutto sommato l’album mantiene una certa coerenza, e l’ascolto non è sottoposto a sbalzi indigeribili.

Perché ho scelto questo disco?

Semplicemente perché è l’album che mi fece scoprire i Pink Floyd. Non senza qualche complicazione, devo ammettere.
Fu regalato a mio padre da un nostro cugino, nel natale del 2001.
Mio padre ha vissuto gli anni d’oro della musica rock, quindi da ragazzino aveva avuto la fortuna di ascoltare in vinile dischi come Meddle, Atom heart mother e Animals.

La passione di mio padre verso i Pink Floyd, seppur molto contenuta perché lui non è mai stato mitomane e non l’ho mai sentito dire “Il mio cantante preferito è Tizio”, me l’aveva tenuta nascosta fino a quel momento; infatti in macchina o in casa non mi era mai capitato di ascoltare musicassette del quartetto inglese.
Ma da quel giorno mio padre iniziò ad ascoltare in macchina Echoes, rendendo partecipe anche me e mia madre.

Io all’epoca ascoltavo solo musica italiana, eccezione fatta per qualche fenomeno che è durato qualche stagione, come ad esempio gli Aqua, e devo ammettere che ascoltare i Pink Floyd richiedeva da parte mia un sacrificio non indifferente.
Non riuscivo proprio a sopportare quelle lunghe code strumentali e quegli arpeggi sonori che in alcuni casi superavano abbondantemente i dieci minuti.

Poi qualcosa è cambiato: col tempo sono riuscito ad apprezzare qualche canzone.
Cominciai a interessarmi alle canzoni più accessibili come Learning to fly e Wish you were here.
La prima appartiene al periodo post-Waters, e infatti gli album scritti interamente da Gilmour sono molto più leggeri e, secondo i detrattori, più commerciali. Pero a me piacciono un sacco.
Album come A momentary lapse of reason e The division bell li trovo davvero eccezionali.
La seconda invece è il classico che tutti conosciamo che diede il titolo all’omonimo album del 1975.

Pian piano mi appassionai a quasi tutte le canzoni. E quando mi trovavo a fare qualche viaggio insieme a mio padre, lui mi raccontava qualche aneddoto o un ricordo legato a quelle canzoni, e da allora l’ascolto dei Pink Floyd si rivelò imprescindibile.

Oggi, 17 anni dopo, vado pazzo per capolavori come Us and them, Comfortably numb, Shine on you crazy diamond, The great gig in the sky, e la canzone strumentale che più mi fa impazzire One of these days. Quella la conoscevo già perché era la sigla di Dribbling, famoso programma sportivo.

Non posso dire che i Pink Floyd siano la mia band preferita, perché non li ascolto frequentemente come faccio con altri gruppi come i The Who, Rolling Stones o i Creedence Clearwater Revival; e poi perché non posso paragonarli a nessun altro.

La loro musica trovo che sia qualcosa che venga da un’altra dimensione, quel tipo di suono che hanno saputo creare non l’ho mai trovato da nessun’altra parte, e non parlo di bellezza ma proprio di genere. Nel bene e nel male, nei capolavori o nelle canzoni minori, i Pink Floyd sono senza eguali, e quindi non posso proprio paragonarli a niente.
Dico sempre che ci sono i miei artisti preferiti e poi ci sono i Pink Floyd, perché devo metterli su un piano a parte.

La prima e l’ultima e forse anche unica volta che ho avuto modo di vedere i Pink Floyd insieme è stato durante il Live Aid del 2005.
Ricordo bene quel momento, anche se solo più tardi mi sono reso pienamente conto del momento epocale al quale stavo assistendo.
Quella reunion tanto attesa entrata di diritto nella storia, fu uno dei regali più belli per i miei diciott’anni.