david-bowieI grandi artisti sono quelli che sanno stupirti e lasciarti senza fiato, nel bene e nel male. Sono quelli che più di ogni altri sanno trasmetterti sensazioni, che possono essere positive o negative, ma in entrambi i casi se ti lasciano addosso un segno indelebile vuol dire che hanno centrato il bersaglio. E tra questi ci sono anche quei pochi che riescono ad essere imprevedibili qualsiasi cosa facciano. Anche quando si tratta di uscire di scena. Oggi purtroppo il mondo della musica è rimasto orfano di uno dei suoi pilastri: David Bowie. Ho sempre creduto che Bowie fosse uno dei pochi, forse l’unico tra i cantanti, che meritasse a pieno titolo l’aggettivo “artista”. Le sue canzoni erano delle autentiche pennellate d’arte, erano disegni in musica. Talvolta astratti e altre volte più pop, ma mai nessuno come lui è riuscito a mettere l’arte in musica.

Dicevo imprevedibile perché lui nella sua carriera non si è mai ripetuto ed ogni volta che si presentava sulle scene non si sapeva mai cosa aspettarsi. In quasi cinquant’anni (il primo album omonimo risale al 1967) ha attraversato ogni genere: Rock, Glam, Jazz, Techno, Pop, Dance e in ognuno di questi ha raggiunto risultati eccellenti dimostrando di sapersi trovare a proprio agio in tutto ciò che fosse musica e soprattutto senza mai risultare ripetitivo. Esattamente l’8 gennaio di tre anni fa avvenne qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto prevedere: il ritorno sulle scene dopo dieci anni di silenzio discografico. Tutti ormai si erano rassegnati al fatto che David Bowie fosse un’icona in pensione e invece quel giorno, a sorpresa, le radio trasmisero Where are we now, primo singolo dell’album The next day che sarebbe uscito a marzo. Quel giorno non si parlava d’altro e tutto il mondo musicale fu scosso da questo evento. Nessun altro sarebbe riuscito a organizzare un rientro in grande stile senza lasciar trapelare alcuna notizia. Lui ci è riuscito.

Ricordo bene quel giorno: stavo tornando in macchina da Lecco, dopo una trasferta di lavoro. Ho acceso la radio e ho sentito quelle note struggenti, che sembravano provenire da un’altra dimensione. E la voce cupa e drammatica del Duca. Mi sono immobilizzato, “Che diavolo sta succedendo?” ho pensato. Il resto è noto a tutti. E ora, a soli tre giorni dall’uscita del suo ultimo album Blackstar, uscito proprio il giorno del suo 69esimo compleanno, proprio nel momento in cui nessuno avrebbe sospettato niente di simile, ci ha colpiti di nuovo con la più imprevedibile tra le notizie.

Personalmente ho sempre amato Bowie; il primo ricordo è di quando ero piccolo e vidi il film Labyrinth. Rimasi affascinato dalla canzone Magic dance, e da allora fino all’adolescenza ho sempre saputo che in giro c’era qualcuno di nome David Bowie che aveva fatto una canzone veramente figa. Poi nel 2002 lo vidi ospite alla trasmissione Quelli che il calcio, per la promozione dell’album Heathen. In quell’occasione eseguì Cactus. Rimasi affascinato da quelle note e quello stile che mi rimasero impressi. Scoprii più tardi che si trattava di una cover dei Pixies, ma restai deluso solo in parte. Lo stile che mi aveva tanto affascinato era tutto suo e non di qualcun altro. Da lì iniziai a esplorare la sua discografia, lentamente, per quel che la paghetta di uno studente poteva permettermi di fare. E anche se non tutte le canzoni mi piacevano e molte le trovavo davvero indigeribili, il suo personaggio continuava ad affascinarmi.

Perché diciamocelo, Bowie ha fatto dei veri e propri capolavori, ma ha fatto anche tante canzoni veramente insopportabili. Però c’è da dire che dal 1969 al 1980 non ne ha sbagliata una. Ovvero quell’arco di tempo che va da Space oddity a Scary monsters. In soli undici anni è riuscito a partorire dodici autentiche gemme (tredici se si conta l’album di cover Pinups) che hanno cambiato per sempre il mondo della musica, essendo di ispirazione a molti musicisti da ogni parte del mondo. Dall’hard rock di The man who sold the world, al folk di Hunky dory. Dal glam di Ziggy Stardust e Aladdin sane al funk e soul di Young americans. Passando poi dal rock sperimentale del bellissimo Station to station, album di sole sei canzoni ma che sarebbero bastate per entrare nella storia, per poi arrivare alla trilogia berlinese composta da Low, Heroes e Lodger. Album realizzati insieme a Brian Eno che fondono musica ambient con la New wave.

Negli anni ottanta la vena artistica subì un lieve calo e il grande e inaspettato successo di Let’s dance del 1983 costrinse Bowie a proseguire su una strada più commerciale dando vita l’anno dopo a quello che per molti è uno dei suoi lavori meno riusciti, ovvero Tonight. Seguito tre anni dopo dall’ancora più brutto Never let me down. Da lì in poi il genio di Bowie faticò ad emergere completamente. Anche se continuò a proporre lavori interessanti come la parentesi dei Tin Machine, gruppo da lui creato tra il 1988 e il 1992. I lavori seguenti li trovo abbastanza trascurabili, a parte Heathen del 2002. Se non ricordo male quello fu il primo album di Bowie che acquistai e ancora oggi continua ad affascinarmi. The next day e l’ultimo Blackstar non sono ancora riuscito ad ascoltarli attentamente, ma credo che lo farò per il rispetto che nutro nei confronti di un artista immenso che ho sempre ammirato.

Ed è proprio in un contesto come questo che il titolo dell’ultimo album Blackstar assume un significato particolare. Un po’ perché il mondo stellare è sempre stato un tema caro a Bowie, basta pensare a due dei suoi capolavori più celebri come Space oddity e Starman, e poi perché sono sicuro che, tralasciando ogni tipo di retorica, tutti i fan del Duca bianco da stanotte daranno un’occhiata al cielo, magari anche un po’ soprapensiero, senza volerlo, in cerca di una stella diversa dalle altre. Una stella nera appunto. Non sarà visibile a occhio nudo e su uno sfondo scuro come il cielo notturno, ma noi siamo sicuri che c’è e sarà sempre diversa da tutte le altre stelle.

Grazie di cuore David.